venerdì 31 dicembre 2021
DISCORSO DI FINE ANNO
giovedì 30 dicembre 2021
DIALOGO TRA FETTUCCINA WILDE E MARIO DRAGHI
DIALOGO TRA FETTUCCINA WILDE E BURIONI
MONTEIRO
«Era una persona di immensa libertà, un grande artista, dal rigore assoluto. Con lui la creazione si faceva nella carne viva. C’era improvvisazione, ma sapeva precisamente quello che voleva. È stupefacente, nel suo lavoro, il modo in cui riusciva ad andare in fondo all’orrore della sordidezza e nello stesso tempo attingere a una luminosità, una poesia, una bellezza straordinarie. Viveva sulla falda tra il fondo degli abissi e il massimo della luce. Era un uomo geniale»
(Manuela de Freitas)
«Eccoci qui di nuovo soli. Tutto è così lento. Così pesante. Così triste. Molto presto sarò vecchio. Allora tutto finirà. Tanta gente è passata per questa stanza. Hanno detto molte cose. Non mi hanno detto molto. Sono andati via. Sono invecchiati. Sono diventati lenti e miserabili, ognuno nel suo angoletto di terra».
(Voce off [João César Monteiro] in apertura al film Recordações da Casa Amarela)
Nella sua unicità la filmografia di João César Monteiro contiene le caratteristiche peculiari di tutto il cinema portoghese, quello di sempre e da sempre uguale a se stesso, possiede i caratteri distintivi di una cinematografia riconoscibile ed endemica che, dagli esordi degli anni Sessanta di Paulo Rocha (Os Verdes Anos) e Fernando Lopes (Belarmino), arriva ai giorni nostri con opere quali Tabu di Miguel Gomes e A última vez que vi Macau di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, mantenendo pressoché intatta la propria poetica singolarità. Letterarietà verbosa e soliloquio, austera staticità delle immagini, luce naturale, recitazione sospesa fra straniamento e trance. Una cinematografia indipendente, anzitutto perché costantemente priva di denaro, attenta unicamente ai propri autori, artigiana e autarchica (pur se aperta al mondo intero). Una corda tesa fra il capolavoro e la noia infinita (come la vita?) che diviene monumento vivente con l’ultra (oltre) centenario Manoel de Oliveira. Una (non) scuola, quella lusitana, che ad ogni decade appare a noi spettatori come un miracolo, ma che in fondo è sempre lo stesso miracolo: produttivo, stilistico, linguistico. «La lingua più dolce (come sempre) e il cinema più sorprendente» (Ghezzi 1981, p. 452).
Il cinema di Monteiro si gioca su di un fragile, ma infallibile equilibrio fra rigore formale e sovversione giocosa, fra controllo e trascuratezza, fra immagine e parola, fra effetti visivi accurati e spontaneità documentaristica. Un cinema limite dunque, un esercizio funambolico audace e spossante, capace di inghiottire lo spettatore nei suoi tempi dilatati e inusuali, ma pure di fagocitare l’autore stesso che, a soli 64 anni, lasciò la vita, un solo giorno dopo il suo sessantaquattresimo compleanno (2 febbraio 1939-3 febbraio 2003), già fisionomicamente oltre la propria età anagrafica, così esile e asciutto, così scavato e consunto. I suoi film sono esperienze uniche, tutt’altro che convenzionali, sperimentali nella strenua ricerca di un linguaggio distante da qualsiasi stereotipo, capaci di trasformare la narrazione in un procedere quantistico di stratificazioni semantiche attuate per mezzo di una continua rimodulazione di testi (letterari) preesistenti, che siano la sceneggiatura stessa o l’infinito bagaglio letterario che l’autore si è sempre portato appresso, invariabilmente interpretai da protagonisti eccentrici, socialmente e culturalmente borderline – assai di frequente interpretati da lui medesimo.
João César Monteiro è nato nel 1939 a Figueira da Foz, località sull’Atlantico poco distante da Coimbra, da una famiglia fortemente avversa alla dittatura di Salazar e anticlericale. All’età di 15 anni viene espulso dal liceo e, sempre in quegli anni, si trasferisce con la famiglia a Lisbona dove, a seguito della morte del padre, fu costretto ad abbandonare definitivamente gli studi ed a svolgere vari lavori. Si avvicina al cinema e alla critica e, proprio grazie ad un contatto maturato in quell’ambiente, all’età di 20 anni lascia il Portogallo per andare a Parigi – senza un soldo in tasca. Nella capitale francese ha modo di vedere molti di quei titoli censurati dalla dittatura portoghese. «Ho visto La corazzata Potemkin, un film mitico: da noi era vietato, circolava solo in proiezioni clandestine a 8 mm. A dir la verità, ne fui piuttosto deluso. Il film è geniale, ma, come diceva Douchet, dopo aver visto un film di Ejzenstejn, si ha voglia di andare a vedere un film» (Monteiro in Turigliatto 1999). Ma l’avventura si concluderà ben presto con un rimpatrio. Tornato a Lisbona, dopo un periodo da «parassita sociale», incomincia lavorare nel cinema tout court, con varie mansioni, fino a che nel 1963 non vince una borsa di studio alla London School of Technique. Nel 1965 torna in Portogallo e incomincia a svolgere attività critica caratterizzando il proprio stile per un acceso tono polemico, sempre dissonante anche all’interno del movimento del Cinema Novo: egli rifiuta ogni approccio ideologico al cinema, all’arte e alla vita. Finalmente, nel 1965, gira il suo primo vero film (Quem Espera por Sapatos de Defunto Morre Descalço), che però porterà a compimento solo cinque anni dopo.
La sua è una carriera che prende le mosse, alla stregua dei suoi Maestri francesi della Nouvelle Vague, ma pure dei neorealisti italiani, dall’attività di critico cinematografico, ma ancor prima dalla scrittura, dalla letteratura, dall’uso della lingua per colpire ciò che non amava e per costruire dal nulla ciò che desiderava (le proprie sceneggiature, dunque il proprio cinema). Scrittore e poi regista, come magistralmente evidenziato e ricostruito da Liliana Navarra nel prezioso volume, edito da Sigismundus Editrice, L’alchimista di parole. Inflessibile nelle proprie convinzioni etiche e morali, incapace di scendere a patti con la dittatura (fattasi sempre più morbida verso la settima arte), strenuo difensore della propria indipendenza e dell’idea di un cinema artigiano, capace di darsi alla luce con poco o niente altro che un talento sterminato e impenitente. Un bastian contrario scettico per natura che, anche al sopraggiungere della democrazia portata dalla Rivoluzione dei Garofani del 1974, continuerà la sua attività polemica. Celebre, se non proverbiale, diverranno la sua animosità e le pungolature nei confronti dei colleghi e più in generale di qualsiasi conformismo lusitano (e non solo). Il suo rapporto di amore e odio verso il Portogallo diverrà reciproco. Anche di fronte all’ascesa del suo cinema nei festival e all’interno della comunità cinefila internazionale, soprattutto francese, il suo nome sarà sempre oscurato da una fitta coltre di maldicenze e relegato in una posizione subalterna al monumento de Oliveira (che lui fra i primi difese e lodò sul finire degli anni Cinquanta).
Monteiro però non può essere considerato un cineasta-cinefilo. Il suo cinema non nasce unicamente dalla passione per il cinema o per alcuni registi in particolar modo, il suo non è stato un discorso amoroso con la settima arte del tipo di quello intercorso fra i «giovani turchi» dei Cahiers, non un dialogo/lotta con i registi amati/odiati, il suo cinema nasce dall’interesse per l’arte in generale e la letteratura in particolare: i suoi film sono espressioni cinematografiche di idee letterarie, pittoriche e poetiche.
I film di Monteiro tracciano un’affascinante traiettoria che, dalla cupa austerità dei suoi primi titoli (Veredas, per esempio, anno 1977) – opere che si pongono l’obiettivo della riscrittura dei miti della cultura popolare portoghese rifuggendo l’approccio folklorico del cinema lusitano degli anni Cinquanta e che giungono al proprio punto di maggior splendore con l’indiscutibile capolavoro che fu Silvestre (1981) – procedono verso una “luminosità” via via sempre più giocosa (divertita e divertente) che, con le opere della “Trilogia di Deus”, raggiunge il culmine della produzione del regista portoghese (sia in termini artistici che per quanto concerne premi e riconoscimenti critici). Tre film, Recordações da Casa Amarela (1989, Leone d’argento a Venezia), A Comédia de Deus (1995, Gran Premio della giuria sempre a Venezia) e As Bodas de Deus (1998, presentato a Cannes nel 1999 nella sezione "Un certain regard"), legati fra loro dalla presenza di un unico protagonista: João de Deus. Interpretato da João César Monteiro stesso e costruito sulle sue manie e ossessioni, de Deus è il suo doppio iperbolico, sorta di Monsieur Opale renoiriano, dedito a ogni sorta di piacere e scevro da qualsivoglia tabù, ma, a differenza del “modello” tratto da Jean Renoir o del più celebre Monsiur Verdoux, propenso al bene e affascinato dalla bellezza, soprattutto femminile. João de Deus è un uomo totalmente libero da ogni tipo di condizionamento o costrizione, che vive per il gusto di vivere, per assaporare il piacere che l’esistenza concede, un Marchese De Sade (forse il vero modello e alter-ego di Monteiro cineasta e uomo) “buono”, ma non privo di inclinazioni sessuali oscure e perverse. Il nome deriva da quello di un santo, João de Deus (1495-1550), dedito alla cura e all’assistenza di poveri e diseredati che, prima di giungere a santità, venne internato come folle. Allo stesso modo, nella trilogia, la narrazione dà conto di ascese e cadute, di un percorso accidentato verso una santità laica che conduce il personaggio ad un miglioramento sostanziale del proprio “senso” nel mondo e verso sé stesso. Se nel primo film, Recordações da Casa Amarela, de Deus è un uomo costretto alla miseria e per questo cinico e materiale, nei film successivi, affrancandosi dalla contingenza delle necessità, migliorando la propria condizione sociale e economica, riuscirà finalmente a esprimere quella tensione verso un’alterità divina che lo percorreva da sempre. João de Deus è un personaggio caratterizzato da una profonda necessità al rito, ogni sua azione è infatti frutto di un rituale tanto personale quanto universale di ascetica elevazione spirituale. Egli è idealista e spirituale, religioso ma laico, appare come un sacerdote di una religione personale che attraverso il continuo affinamento dei propri riti riesce a entrare in sintonia con l’esistenza e gli uomini (soprattutto le donne). Dal punto di vista estetico queste tre opere, realizzate nell’arco di dieci anni, rappresentano la summa di tutto il cinema di Monteiro: raffinatissime e curate in ogni aspetto formale, simmetriche in ogni inquadratura, illuminate da luce naturale, riprese con la macchina da presa statica, scarne nella costruzione dei set presi a “prestito” dalla realtà e soprattutto costruite attorno alla parola. Ossessivamente letterario il cinema di Monteiro rimastica e modula un’enciclopedia di citazioni e rimandi in un vertiginoso gioco poetico e intellettuale con esiti davvero sorprendenti e per niente datati agli occhi dello spettatore contemporaneo. Dunque una trilogia che è summa di tutto il suo cinema e del suo percorso umano e professionale, come il personaggio di João de Deus eleva la propria condizione spirituale, così João César Monteiro giunge alla completa pacificazione della propria irrequietezza per imporsi come uno dei registi più completi e sorprendenti del cinema portoghese di ogni tempo.
I suoi ultimi due film divengono sempre più ossessionati dal concetto di rituale e della luce, e ovviamente dalla parola e dalla letteratura, sviluppando un ritmo assolutamente unico e ipnotico. Branca de Neve(2000) è un film estremo, non dissimile dal ben più celebre Blue di Derek Jarman (1993), in cui per la quasi totalità dei 75 minuti della sua durata l’immagine è assente (a nero) e la narrazione procede con le voci di un gruppo di attori che recita un testo di Robert Walser adattato da Monteiro stesso. Un film metalinguistico, un manifesto, o forse sarebbe meglio parlar di un testamento, che pone in maniera estrema e concettuale la parola al centro di ogni possibile narrazione di un cinema, di ogni cinema possibile, che proprio perché pare assente, svanito, acquista o ritrova il proprio centro, la propria essenza. Che è letteraria e intellettuale.
Vai e vem (2003), l’ultimo film di Monteiro, lo vede ancora una volta protagonista, incredibilmente invecchiato dalla malattia che lo porterà alla morte, questa volta nei panni di João Vuvu, un anziano uomo in attesa della dipartita e ancora dentro al film troviamo tutta l’anarchica vitalità del cineasta portoghese, sfrenato nella sua iconoclasta virulenza contro ogni morale, religiosa, sessuale e sociale. Una vibrante dissertazione continua, divagazione eterna fra tutti i piaceri che la vita offre, un film parlato che diviene cinema quasi in maniera automatica e mai cercata: come nei viaggi sull’autobus numero 100 che dal Bairro Alto scende fino alla Placa das Flores, attraversando la sua amata Lisbona arroccato nei sedili posteriori del mezzo pubblico, attraversato dai lampi di luce del sole, come su di un trono, già consegnato all’eternità.
Il cinema di João César Monteiro merita di essere (ri)scoperto ancora e ancora, guardato e ammirato nella sua miracolosa unicità, è un cinema al quale è necessario concedere ancora tempo perché struggente e (semplicemente) bello, per niente invecchiato e che, soprattutto, ha ancora molto da dirci sul cinema contemporaneo e su quello futuro.
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