C’era una volta un dio abissale. Camminava, di notte,
lungo coste rossastre di coralli antropofagi.
Nella tenebra i suoi occhi erano specchi. Le sue mani erano alate creature
multiformi che segnavano
a dito costellazioni e universi. Sistemi solari e lune precipitate.
Il suo incedere era una danza.
Le sue voglie un vento impetuoso che tirava da oriente e portava a galla,
sull’acqua increspata, perfino l’aurora. Aveva ritratto il mare, l’alba, le guerre.
S’era persino incarnato
e diceva d’esser poeta.
Aveva una bizzarra abitudine: apriva i fiori dell’orchidea nera,
ne coglieva l’odore e ne esplorava le turgide labbra.
Aveva bisogno di carpirne il segreto.
E il segreto era “dentro un segreto dentro un segreto”.
Il segreto passava attraverso gli scrigni delle sue mani carnose.
Passava per l’umida soglia delle sue
labbra salmastre.
Il dio abissale aveva paura dei gatti: eppure erano gli unici esseri
che potevano svelargli l’arcano.
Era immortale: su di lui pesava l’onere di un tetro vaticinio.
Poteva unirsi alle donne mortali
e ognuna di loro, dopo l’amplesso, si trasformava in serpente.
Se il dio abissale avesse però amato
una sola di quelle creature, avrebbe perso l’immortalità e
per il morso del Sacro Serpente di Persefone,
vergine, sposa e vegliarda, sarebbe stato condannato
alla dannazione d’amore per sempre.
Nessuno seppe mai in qual luogo lontano ebbe dimora
il suo cuore dopo che fu ingoiato
da una fanciulla leggiadra coi sandali d’oro e
la bocca del colore dell’alba purpurea.
Qualcuno dice che spezzando i coralli portati
dalle rare tempeste d’aprile venga fuori,
di tanto in tanto, da quel rosso sanguigno
una lacrima dolce, di miele, secreta dal dio che
vaga nella distesa dei mirti. Il dio abissale era
chiamato Aspotroff e la fanciulla aveva nome Epithumìa.
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