mercoledì 26 agosto 2009

UN ARTICOLO DI VITO DE BIASI

Il senso di Levi's per l'arte…

In mostra, e in vendita in esclusiva da 10 CorsoComo a Milano fino al 30 Novembre, la limited edition "Levi’s® X Damien Hirst", l’arte da indossare dell’ultimo folle artista superstar.


di Vito De Biasi

…O il senso di Damien Hirst per il marketing, si potrebbe dire…
L’artista geniale ed estremo degli animali sezionati immersi nella formalina, del teschio interamente fatto di diamanti campione di vendita alle aste For the Love of the God (e la sua provocazione è proprio la domanda brillante che ci rivolge all’interno dell’affare d’oro: quale Amore? quale Dio?) ne ha fatta un’altra delle sue. Vale a dire un’altra operazione di comunicazione e di marketing che non si discosta affatto dalla potenza e dall’eccesso dell’arte contemporanea, ma usa con consapevolezza l’una e l’altra perché sa bene che hanno dei meccanismi comuni. E vende questa consapevolezza anche a noi che abbiamo bisogno di jeans ma anche di arte.

Dopo la passata esperienza con la Fondazione Andy Warhol per utilizzare le immagini dell’artista pop in una collezione di qualche anno fa, Levi’s ha proposto a Damien Hirst di pensare una serie limitata di capi da vendere in via del tutto esclusiva, per rilanciarsi rispetto alla concorrenza e per creare quel legame di affettività e desiderabilità insieme che lega i fan del marchio e ne vorrebbe trovare di nuovi (che siano fan di Levi’s o di Hirst poco importa). E così, un’altra icona della moda street si lega e si potenzia soprattutto nel suo valore immateriale ad un’icona della contemporaneità, l’artista estremo ed il giocatore d’azzardo del mercato dell’arte, il provocatorio e tragico Hirst, non meno icona e manager di se stesso di Madonna, o di qualunque altra pop star nel senso più ampio del termine.

Il risultato è un’ennesima conferma, della forza comunicativa dell’artista e del potere consumante del vestire.
Sulle magliette, sui jeans, sulle giacche sportive da uomo e da donna, i temi a cui Hirst ci ha abituati da tempo: teschi di ogni foggia e dimensione, punti colorati che possono essere pois o enormi pastiglie simili a psicofarmaci cartoon, ali di farfalle tropicali coloratissime ed inquietanti.
Queste immagini della fragilità in una esplosione di colore quasi gioiosa, ma straniante, sembrano dire la stessa cosa dell’arte di Hirst: la deperibilità della farfalla, del teschio, del colore stesso che scolora sono una metafora della morte, della nostra stessa deperibilità, sia che ci emozioniamo con l’arte, sia che sperimentiamo ogni giorno la deperibilità del jeans, la transitorietà della moda stessa, dei nostri desideri di possesso e consumo.
E così, ancora una volta Hirst ci provoca con una domanda forte, grottesca, ma a suo modo toccante (stavolta addirittura indossabile): l’esclusivitàlimitata di questo lusso, del portare addosso un Damien Hirst, dovrebbe essere come la consapevolezza “ che nel corso della nostra esistenza ci è dato un tratto di tempo da percorrere che non dura tuttavia a lungo: spero che le mie immagini comunichino questo concetto” (parole sue). Stavolta quella domanda possiamo vestirla, farne idea di stoffa: sperimentare con il lusso/lussuria del vestire qualcosa di Hirst la reale transitorietà di ciò che indossiamo e di cosa diventiamo nel percorso. Teschi, ali di farfalla, punti di colore.
Non c’è solo una filosofia tragica alla base di questo, ma c’è il caleidoscopio dei colori, una quasi-psichedelia punk che fa pensare alle favole per bambini: storie divertenti per suggerire qualcosa di oscuro, un eccesso di seduzione per raccontare un altro eccesso, il sarcasmo senza speranza ma anche la tenerezza dell’avere in comune questa condizione “no future”.

Oltre al contenuto, con Hirst, anche quando fa “lo stilista”, è sempre una questione di linguaggio. Ed anche come accade quando fa “l’artista”, nessuno come lui sa mettere in crisi quei confini certi che abbiamo stabilito tra artista e stilista, tra pensatore e mercante, tra genio e furbizia. Lo stesso fenomeno delle limited editions sempre più diffuse (e dunque, quanto mai veramenteesclusive?), delle icone artistiche sulle tazze, sulle magliette, su ogni oggetto estetizzabile della vita quotidiana, del rapporto sempre più stretto ed indissolubile tra arte e mercato, tra arte e moda, ci fa scoprire quanto non si tratti solo di operazioni di marketing (che cresce sempre sullo studio dei desideri), ma del rapporto indissolubile e continuo tra desiderio-mercato e quindi tra arte-moda.
L’opera d’arte da indossare, ad esempio, è allo stesso tempo un desiderio lussuoso-lussurioso ed una ottima campagna di marketing, ed il ponte ideale tra arte e mercato, la sintesi più raffinata dei loro linguaggi è proprio la moda, che è insieme creatività “innata” e calcolo economico, spontaneità e previsione, è allo stesso tempo il luogo dove il desiderio nasce e si soddisfa.

L’artista che vende Levi’s e la sua arte contemporaneamente è solo l’ultimo, brillante esempio di un meccanismo del desiderio che ha messo Keith Haring ed i suoi omini fumettistici sulle magliette, o ogni cosa che Andy Warhol a sua volta aveva preso dal mondo del consumo per farne arte. Adesso, accade il processo inverso: l’arte diventa consumabile, indossabile, un linguaggio come la pubblicità o il vestirsi, e l’artista non è più il genio isolato ed irraggiungibile, ma un brand, come Andy Warhol, o come lo stesso Hirst, che ha addirittura creato un logo col suo cognome che somiglia a quello di una casa farmaceutica, con riferimento alle sue opere su pillole e pasticche come ritrovato chimico della felicità, sulla formalina come sostanza dell’eternità. 
La domanda non è più dunque su cosa è arte e cosa è mercato, ma, molto piùbrillantemente: e se fosse il linguaggio stesso del desiderio, marketing compreso, ad essere arte? Se fosse il mercato, che non solo intercetta, ma anticipa e qualche volta inventa desideri, ad essere la nostra arte del vivere?

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