Mia nonna paterna Isabella Gigliotti (cugina di Dalida) e mio nonno paterno Eugenio
Farina (cugino di non so chi, mi perdo con le parentele) hanno avuto quattro figli: Aldo,
Roberto, Dario e Loredana. Aldo, il primogenito (mio padre e padre di mio fratello), era
un ingegnere, vendeva turbine a vapore, zio Robi, il secondogenito senza figli, era un
operatore culturale nella Roma del sindaco architetto Renato Nicolini, zio Robi si
occupava di rassegne cinematografiche e aveva fondato negli anni Settanta un mitico
cineclub L'occhio, l'orecchio e la bocca, insieme a Gianni Romoli e Silvia Viglia.
Dario Farina, il terzogenito, è un compositore di canzoni famosissime (Sarà perché
ti amo, Mamma Maria, Voulez Vous Danser, Se m'innamoro, Felicità, Ci sarà e tante
altre), Loredana, l'ultima a nascere, è una ex hostess con due grandi occhioni verdi
che fecero perdere la testa al famoso Papillon un giorno di tanti anni fa in aeroporto.
Loredana ha avuto due figli: Daniele e Diana. Mio padre Aldo aveva un grande
talento nel disegno che abbandonò per diventare un pasciuto e generoso borghese,
si era sposato con Miss Incanto, mia madre, e aveva due figli che riteneva due
simpatici intrusi: io e mio fratello. Ci diceva spesso "siete le due seghe che ho più
rimpianto nella mia vita". Nonostante questo, ci ha donato con generosità tutti i
mezzi per diventare un filmmaker (io) e uno scrittore (mio fratello). Mio padre
aveva un ottimo rapporto con Dario e Loredana e un rapporto quasi inesistente
con zio Robi, considerato uno scansafatiche senza un lavoro fisso, un bohémien.
In effetti zio Robi non aveva un lavoro fisso ma non era uno scansafatiche.
I Farina si erano trasferiti dal Cairo a Roma, poi mio padre trovò lavoro a Milano,
Dario emigrò a Monaco di Baviera e Loredana e zio Robi restarono
nella città eterna. Loredana si sposò e solo zio Robi rimase a vivere con la mamma,
mia nonna Isabella (che fumava 4 pacchetti di sigarette al giorno). Nonno Eugenio
(bello e virile, scultore con la sabbia di meravigliosi volti sulle spiagge egiziane)
era morto per un tumore ai polmoni, anche lui fumava molto. Quindi nella spaziosa
casa di piazza Bologna a Roma vivevano solo mio zio Robi e mia nonna.
I fratelli "importanti" (così li chiamava zio Robi) mandavano ogni mese 4 milioni
a mia nonna, di questi 4 milioni molti finivano nella tasche bucate di zio Robi
che offriva pranzi e cene a tutti i suoi amici. Per questo non era visto di buon occhio
dall'ingegnere Aldo e dal compositore Dario. Io, pur essendo figlio dell'ingegnere
Aldo, avevo un'indole molto simile a quella di mio zio Robi, in sostanza non ho mai
lavorato in vita mia, ma non sono uno scansafatiche. Non lavorare non significa
non fare nulla, anzi, potrebbe essere l'esatto contrario, non lavorare ti permette di
avere molto tempo libero per occuparti di ciò che ami, ed è quello che fece mio
zio Robi. Mio zio Robi amava il cinema, le periferie (soprattutto quelle romane,
come Corviale, dove organizzò una rassegna cinematografica leggendaria), poi
adorava Maria Callas (sapeva tutto su Maria Callas, la vide cantare anche all'Opéra
di Parigi, e dico vide perché più che la voce furono gli occhi fiammeggianti
della divina a rimanergli impressi per sempre nel cuore). Zio Robi, oltre che
bohémien era anche gay, ma questo in famiglia non mi fu mai detto chiaramente
per una sorta di pudore borghese ma non moralisitico, era semplicemente un
argomento che veniva messo sotto il tappeto, come la polvere, polvere gay.
Mio zio Robi e mio padre Aldo si assomigliavano molto fisicamente, mio padre
era la versione borghese di zio Robi e Robi era la versione bohémien di mio
padre. Negli anni Novanta andai una settimana a Roma per conoscere meglio
questo zio "scansafatiche" a cui mi sentivo legato da una innata predispozione
al rifiuto del lavoro fisso. Precipitai in un mondo fatto di attori, comparse,
sceneggiatori marginali vampirizzati da sceneggiatori importanti, un mondo
di feste allucinanti dove si scolavano bottiglie di Cointreau a canna, dove si
sentivano discorsi intellettuali di critici cineamotografici (Adriano Aprà e altri),
discorsi politici di sinistra, simpatie dichiarate per il femminismo sgargiante
di femministe altrettanto sgargianti (ne ricordo una che si vestiva sempre di
rosso), dove incontravi gli autori di Blob (Ghezzi e il resto della ciurma), e
dove potevi gustarti le apparizioni di attori anche famosi fatti e strafatti di
cocaina che danzavano freneticamente in queste feste allucinanti dove mi portava
mio zio Robi. Era il paradiso per me! Non esistevano solo le turbine a vapore
che vendeva mio padre! Mio zio Robi viveva come vi ho detto con mia nonna
ma ogni tanto si concedeva dei periodi in cui andava ad abitare in case strane
chiamate "i materassi" o "le grotte". Durante una spaghettata piena di sugo
ai materassi (una casa che aveva materassi al posto del pavimento) mio zio
Robi si innamorò perdutamente di Mauro, un romanaccio dal cuore tenero,
sembrava un gladiatore fragile, con il braccio pieno di buchi di eroina,
possente ma franante, che calpestando questi materassi sporchi di sugo disse
"Aò, ma siete proprio degli zozzoni" e mio zio portandosi una mano sul cuore
esclamò "Dio mio, lo adoro, chi è questo ragazzo?". Mauro (questo era un
periodo successivo, quello delle Grotte, in cui io andai a Roma) viveva con
mio zio in questa specie di grotta a Trastevere, appendeva al muro fogli
deliranti in cui parlava di dimensioni dell'essere ulteriori, quando andava in
crisi di astinenza si tagliuzzava il braccio con il vetro di bottiglie rotte, e
il bianco delle pareti delle Grotte si tingeva di rosso. Mauro è rimasto vicino
a mio zio Robi fino alla fine, fino all'ultimo respiro. Anche Mauro è morto.
Venne a trovarmi a Milano dopo la morte di Robi, rimase da me qualche
giorno. Una mattina, mentre io facevo colazione zuppando i biscotti nel
latte, Mauro prese un cucchiaio e un limone, un laccio e una siringa, questa
era la sua colazione e si fece di eroina davanti ai miei biscotti. Poi andammo
in farmacia, prese due boccette di sciroppo per la tosse, mi portò in un bar
e chiese un bicchiere d'acqua, versò il contenuto di entrambe le boccette
di sciroppo nell'acqua minerale, mescolò e bevve tutto d'un fiato, mi disse
"Se lo fai tu, potresti morire". Dopo avere bevuto l'acqua "sciroppata" entrò
nella sua mini Cooper scassata, con il suo gatto Milù, e ripartì per Roma.
Al funerale di mio zio Robi vidi tutto il mondo che avevo frequentato
in quella famosa settimana romana di tanti anni prima, c'erano famosi
critici (ricordo un affranto Tatti Sanguineti, un Enrico Ghezzi stravolto
che si aggirava come sopra una nuvoletta di dolore, un Oreste de Fornari
rigido, compassato, con un dolore educato dentro), rividi anche la famosa
femminista sgargiante vestita di rosso. Mia nonna Isabella, mater dolorosa,
in pausa sigaretta, si lamentava in modo teatrale davanti alla bara del figlio
bohémien molto amato, tanto che una grande amica di mio zio, Cristina,
se ne uscì con questa battuta che ancora ricordo "Sta rubando la scena al
figlio anche adesso". Mio zio Roberto è stato cremato insieme a un libro
su Maria Callas (il suo folle amore) dove ognuno di noi ha scritto un ultimo
pensiero di commiato. Io scrissi "Dio benedica McDonald's", perché mio
zio, pur essendo comunista, gay e bohémien, adorava mangiare da McDonald's
e un giorno, mentre addentava un BIG MAC l'ho sentito dire proprio
queste magiche parole "Dio benedica McDonald's". Il giorno dopo la sua
morte, Enrico Ghezzi dedicò un intero Fuori Orario a mio zio Robi e
uscì un bellissimo articolo dell'ex sindaco di Roma Renato Nicolini che
ricordava zio Robi con grande affetto. Non è male per uno scansafatiche.
Zio Robi venne poche volte a Milano a trovarmi, forse solo una, ricordo
che mi portò in periferia, in un teatro, ad ascoltare una Traviata sgarrupata,
ma fatta con passione, alla fine iniziò ad applaudire come un forsennato
gridando "divina, divina, divina", aveva ancora negli occhi la Maria
Callas che vide da giovane al teatro dell'Opéra, quegli occhi fiammeggianti
con i quali è stato cremato ancora ardevano in lui di un amore infinito.
Mi piace ricodarlo così.