“Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. […]Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi;1'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co'tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi”. Giacomo Leopardi, Zibaldone. Ecco il punto di partenza fariniano. Ma per superarlo. In un grado tale di mortali picconate all’utero di Madre Terra che si dimentica quell’immagine a tratti speranzosa di un uroboro che nonostante tutto, a volte, solo a volte, ci consente di pensare allo scorrere pacifico delle cose e al ritorno. In qualche modo. Secondo quella strana legge di Natura-pare- per la quale “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. L’uroboro dell’anaciclosi continua, della continua rigenerazione. E poi il principio. Nell’acqua? Nel fuoco? Nell’aria? Non scomodiamo chi già ha tanto patito. Farina mi ha mostrato il senso. Ed è nella suggestione dei padri che “sonnecchiano” pacati su una panchina. All’ombra di quel verde che è simbolo per eccellenza del decadimento. E’ di una suggestione epica questo film. Perché è la guerra di noi stessi con l’origine. Fino alla pacificazione agognata. Che non avverrà. Ahimè. E’ la ricerca dell’uomo e della storia; ma è soprattutto l’esigenza di un legame. Con ciò che scorre nel nostro sangue. Con quello che ci invita al “bel lasciarsi andare” al senso di appartenenza a Dio, che ha dimora nell’albero, nell’erba, nel bene, nella tragedia, nella morte. Ma anche con quel pulsare di seme nell’utero. Con quel filamento ardimentoso che è il DNA. Che è il perpetuarsi di quella stirpe che continua a vivere e PULSARE, appunto, dentro di noi. E ci rende reliquiario e calice. Ostensorio , vivente e morente, di sacralità. Piango. E devo andare. Scappare verso un dovere che rifiuto. Oggi più che mai. 2.16/2.26: sequenza in cui vita e morte, bene e male, inizio e fine si compenetrano, si annullano. Apoteosi di lacrima e mani. Padre e radice. Sonno e vento. Perdita. Ritorno. Morte. Vita. Rumore. Silenzio. POESIA. Che i padri continuano a permettere. Come l’Origine. Necessariamente. Ho imparato molto da questo film. E lo porterò con me oggi. Forse per riuscire a morire.
non importa aggiungere altro? forse sì: il sentire nel petto che distrugge o affranca, restituendo i perché dove sembra esserci solo alchimia di una chimica ben costruita.
anche io ho pensato molto vedendo questo video (tre volte finora). c'è un'intera visione del mondo e forse la tragedia è proprio questa visione, non la vita in sè.
2 commenti:
“Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. […]Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi;1'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co'tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi”. Giacomo Leopardi, Zibaldone.
Ecco il punto di partenza fariniano. Ma per superarlo. In un grado tale di mortali picconate all’utero di Madre Terra che si dimentica quell’immagine a tratti speranzosa di un uroboro che nonostante tutto, a volte, solo a volte, ci consente di pensare allo scorrere pacifico delle cose e al ritorno. In qualche modo. Secondo quella strana legge di Natura-pare- per la quale “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
L’uroboro dell’anaciclosi continua, della continua rigenerazione. E poi il principio. Nell’acqua? Nel fuoco? Nell’aria? Non scomodiamo chi già ha tanto patito. Farina mi ha mostrato il senso. Ed è nella suggestione dei padri che “sonnecchiano” pacati su una panchina. All’ombra di quel verde che è simbolo per eccellenza del decadimento.
E’ di una suggestione epica questo film. Perché è la guerra di noi stessi con l’origine. Fino alla pacificazione agognata. Che non avverrà. Ahimè. E’ la ricerca dell’uomo e della storia; ma è soprattutto l’esigenza di un legame. Con ciò che scorre nel nostro sangue. Con quello che ci invita al “bel lasciarsi andare” al senso di appartenenza a Dio, che ha dimora nell’albero, nell’erba, nel bene, nella tragedia, nella morte. Ma anche con quel pulsare di seme nell’utero. Con quel filamento ardimentoso che è il DNA. Che è il perpetuarsi di quella stirpe che continua a vivere e PULSARE, appunto, dentro di noi. E ci rende reliquiario e calice. Ostensorio , vivente e morente, di sacralità.
Piango. E devo andare. Scappare verso un dovere che rifiuto. Oggi più che mai.
2.16/2.26: sequenza in cui vita e morte, bene e male, inizio e fine si compenetrano, si annullano. Apoteosi di lacrima e mani. Padre e radice. Sonno e vento. Perdita. Ritorno. Morte. Vita. Rumore. Silenzio. POESIA. Che i padri continuano a permettere. Come l’Origine. Necessariamente.
Ho imparato molto da questo film. E lo porterò con me oggi. Forse per riuscire a morire.
respiro tra immagini di poeta e parole di mito.
la vita è tragedia.
non importa aggiungere altro?
forse sì: il sentire nel petto che distrugge o affranca, restituendo i perché dove sembra esserci solo alchimia di una chimica ben costruita.
anche io ho pensato molto vedendo questo video (tre volte finora). c'è un'intera visione del mondo e forse la tragedia è proprio questa visione, non la vita in sè.
ciao, Riccardo
Posta un commento