Un incipit più intenso non poteva esserci: un figlio che parla del proprio padre con una poesia così singolare. “Parla per infiniti”. E un figlio sa che parlare per infiniti significa urgenza di concretezza ed eliminazione di inutili artifici. Eppure quanta poesia c’è in questo parlare? L’infinito è il modo della continuità per eccellenza, del non compiuto, di ciò che prosegue in un per sempre senza limite: parlar per infiniti dunque è la significazione di una ricerca perpetua, che non smette mai di aver pazienza e di scoprire quanto importante sia salvare questa umanità così straordinaria. Questo è ciò che penso io di una tale grande creatura: la sua ricerca è come i Notturni di Chopin. Chopin salva l’anima, Ruffini salva il corpo. Mi colpisce l’umiltà che ho percepito. La sua semplicità. La sua schiettezza. Per lui non esiste vanagloria o rivendicazione dei torti subiti. La sua necessità è che venga presa in considerazione la sua sperimentazione perché è l’unica in grado di restituire dignità agli esseri umani che la perdono nell’afflizione di malattie incurabili. E pensare che tra il 6% e il 12% c’è la certezza di vivere. Di vivere dignitosamente. E pensare che esseri umani, come me, come te, hanno il potere di negare la certezza di vivere, per biechi giochi di potere e di devozione al dio denaro. E pensare che tanti figli muoiono sfigurati. Pensare… Il professor Ruffini smette di pensare per agire. Sperimenta e guarisce. Senza gridare ai miracoli. Col solo supporto dell’umano genio e dell’umana dedizione ad una vittoria contro mali oscuri. L’indifferenza uccide i sogni: fa così tanta rabbia. E questa volta era il sogno di un uomo che ama così sconsideratamente gli altri uomini da dedicare venti anni a cercare un rimedio per malattie che appartengono alla disperazione di essere vinte. Il dottor Ruffini e la musica. Il dottor Ruffini e l’Africa, l’India, il Brasile, i ragazzi colpiti da un microbo, che li deturpa, li storpia, li rende inaccettabili al mondo e scandalosi nella loro diversità forzata: il dottor Gilberto Ruffini e la lotta strenua e coraggiosa ad un microbo vinto in solitario duello. Ma nessuno se n’è voluto accorgere. E si preferisce amputare gli arti ad un bambino, piuttosto che usare un medicamento. Perché troppo più forte è l’attaccamento al denaro che non alla strabiliante bellezza delle creature. Il mio personale plauso a questo uomo innamorato del creato vale poco, ma sia un ringraziamento che viene dal profondo del cuore. Il film è straordinario: degno dei documentari fariniani sugli immigrati, degno di Kolossal, degno del ritratto di Alda Merini. Il Farina “impegnato” è un Farina efficacissimo, molto più di qualunque reportage di quelli che ci propinano in continuazione. Mi piace moltissimo la luce: gli occhi di Gilberto sono un faro che vince quella luce rossa e calda e così accogliente. Che occhi puliti, che occhi di Giusto. I suoi ricordi, una storia che mi racconti senza parole. E che si conclude con uno Chopin superbo. Una storia che lascia dentro la bellezza e la rabbia. Che insegna l’audacia e la pazienza, il coraggio e la voglia di giustizia. Grazie, dottor Ruffini. Grazie. E grazie a te, Mostruoso Farina. Brutto divino innamorato del terribile e del meraviglioso! M.
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Un incipit più intenso non poteva esserci: un figlio che parla del proprio padre con una poesia così singolare. “Parla per infiniti”. E un figlio sa che parlare per infiniti significa urgenza di concretezza ed eliminazione di inutili artifici. Eppure quanta poesia c’è in questo parlare?
L’infinito è il modo della continuità per eccellenza, del non compiuto, di ciò che prosegue in un per sempre senza limite: parlar per infiniti dunque è la significazione di una ricerca perpetua, che non smette mai di aver pazienza e di scoprire quanto importante sia salvare questa umanità così straordinaria. Questo è ciò che penso io di una tale grande creatura: la sua ricerca è come i Notturni di Chopin. Chopin salva l’anima, Ruffini salva il corpo. Mi colpisce l’umiltà che ho percepito. La sua semplicità. La sua schiettezza. Per lui non esiste vanagloria o rivendicazione dei torti subiti. La sua necessità è che venga presa in considerazione la sua sperimentazione perché è l’unica in grado di restituire dignità agli esseri umani che la perdono nell’afflizione di malattie incurabili.
E pensare che tra il 6% e il 12% c’è la certezza di vivere. Di vivere dignitosamente. E pensare che esseri umani, come me, come te, hanno il potere di negare la certezza di vivere, per biechi giochi di potere e di devozione al dio denaro. E pensare che tanti figli muoiono sfigurati. Pensare…
Il professor Ruffini smette di pensare per agire. Sperimenta e guarisce. Senza gridare ai miracoli. Col solo supporto dell’umano genio e dell’umana dedizione ad una vittoria contro mali oscuri.
L’indifferenza uccide i sogni: fa così tanta rabbia. E questa volta era il sogno di un uomo che ama così sconsideratamente gli altri uomini da dedicare venti anni a cercare un rimedio per malattie che appartengono alla disperazione di essere vinte.
Il dottor Ruffini e la musica. Il dottor Ruffini e l’Africa, l’India, il Brasile, i ragazzi colpiti da un microbo, che li deturpa, li storpia, li rende inaccettabili al mondo e scandalosi nella loro diversità forzata: il dottor Gilberto Ruffini e la lotta strenua e coraggiosa ad un microbo vinto in solitario duello. Ma nessuno se n’è voluto accorgere. E si preferisce amputare gli arti ad un bambino, piuttosto che usare un medicamento. Perché troppo più forte è l’attaccamento al denaro che non alla strabiliante bellezza delle creature.
Il mio personale plauso a questo uomo innamorato del creato vale poco, ma sia un ringraziamento che viene dal profondo del cuore.
Il film è straordinario: degno dei documentari fariniani sugli immigrati, degno di Kolossal, degno del ritratto di Alda Merini.
Il Farina “impegnato” è un Farina efficacissimo, molto più di qualunque reportage di quelli che ci propinano in continuazione. Mi piace moltissimo la luce: gli occhi di Gilberto sono un faro che vince quella luce rossa e calda e così accogliente. Che occhi puliti, che occhi di Giusto.
I suoi ricordi, una storia che mi racconti senza parole. E che si conclude con uno Chopin superbo. Una storia che lascia dentro la bellezza e la rabbia. Che insegna l’audacia e la pazienza, il coraggio e la voglia di giustizia. Grazie, dottor Ruffini. Grazie.
E grazie a te, Mostruoso Farina. Brutto divino innamorato del terribile e del meraviglioso! M.
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